I tempi
andati non erano migliori, e forse non erano neanche peggiori, semplicemente erano
diversi. Se pensiamo ai grandi progressi degli ultimi cento anni, avremo di che
essere contenti di vivere oggi: l’alfabetizzazione, la scolarizzazione, le 40
ore di lavoro, il servizio sanitario, le cure odontoiatriche… cento anni fa,
per non andare lontano, c’erano? La maggioranza della popolazione era
analfabeta, si lavorava 78 ore a settimana, spesso anche i bambini lavoravano… e se non c’erano furti in
casa (o ce n’erano di meno rispetto ad oggi) era solo perché le case erano così
povere che non c’era niente da rubare. Basta visitare una zona mineraria, una
risaia, un villaggio di montagna, per
avere la chiara percezione di quanto fossero difficili le condizioni di vita
dei nostri antepassati, che non avevano la bicicletta, il trattore o la
motozappa, sia perché ancora non erano stati inventati, sia perché non se li
potevano permettere.
Mi direte
che questo lo sanno tutti, eppure troppo spesso sento dire che prima era
meglio, perché oggi non si vive più: violenza, traffico, affanno, crisi
economica, crisi di valori… prima ci si parlava, prima ci si aiutava, prima… e
forse questo è anche vero… ma perché se le condizioni di vita delle masse erano
durissime, molto più dure, ingiuste e insalubri delle nostre oggi, abbiamo
l’idea che i loro tempi erano migliori? Forse per l’immagine romantica del
focolare con intorno il nonno che racconta belle storie mentre i bambini festosi
ascoltano? Si, senza dubbio, questo succedeva, quando il nonno era vivo, ma il
più delle volte era morto da anni, e avere il nonno vicino era un privilegio di
pochi. O forse perché i bambini giocavano allegri nell’aia e le mamme non
avevano di che preoccuparsi? Vero anche questo, ma le mamme lavoravano
dall’alba al tramonto, i bambini raramente andavano a scuola e spesso lavoravano
anche loro… i pochi che riuscivano ad andare a scuola, quando tornavano a casa
non è detto che trovassero un piatto caldo e il riscaldamento acceso…
I ricordi
che si raccontano sono spesso i migliori, la memoria trattiene con piacere gli
aspetti romantici dei ricordi, difficilmente si ricorda (e si racconta) il mal
di denti, i calli alle mani, il vasetto da notte puzzolente sotto il letto, il
bagno al diurno due volte al mese, i pidocchi… e troppo spesso si tende a leggere
la storia di chi aveva privilegi, già, perché la storia non la scrivono i
poveracci, e le durissime condizioni di vita di milioni di persone silenziose
non fanno parte dei nostri miti.
Ebbene, se
le condizioni di vita sono migliorate, allora perché capita così spesso di
sentire voci di rimpianto per i tempi andati? Forse c’era del meglio, e questo
chi lo nega: più solidarietà, legami famigliari solidi, amicizie
indistruttibili, forza di volontà, coraggio… io stesso quando penso a quello
che hanno fatto i miei nonni, i miei genitori, mi chiedo se avrei la forza di
fare lo stesso… ma forse non è giusto
chiederselo, perché le loro qualità erano necessarie a colmare il vuoto dei
loro tempi, erano la risposta alle loro necessità. Ma veniamo al punto: siamo
passati dal medico di paese che andava in giro col carretto alla struttura
ospedaliera ben attrezzata, dall’aratro trainato da bestie al trattore
ipertecnologico, dal rubabandiera al videogioco, dal caminetto al riscaldamento
autonomo, dalla chiacchierata in piazza al social network… la felicità o la serenità non sono condizioni
legate alle comodità, l’uomo ha coscienza solo dell’innovazione che gli passa
tra le mani, ed è felice con il progresso che vive. La misura della felicità
non dipende dal livello d’innovazione, ma va contestualizzata. Su quali criteri
si basa chi asserisce che i tempi andati erano migliori, e che in passato si
era più felici? Prendiamo una persona che mette i panni in lavatrice e poi
accende l’artefatto, trovandosi davanti un po’ di tempo per fare altro (un
vuoto da riempire), ebbene, quella persona non dirà mai che era meglio quando
le donne di paese andavano a lavare i panni al fiume e si spaccavano le mani e
la schiena strofinando e strizzando. Niente da fare, le necessità sono diverse
e dipendono dal contesto, le qualità che colmano il vuoto oggi non sono le
stesse di tanti anni fa, occorre capacitarsene, occorre far crescere queste
qualità senza rimpiangere quelle cresciute in altri tempi e contesti.
Bene, oggi
abbiamo tutto, lavoriamo 5 giorni a settimana, 8 ore al giorno , abbiamo
ospedali, ci possiamo permettere di andare al ristorante o allo stadio, prendiamo
l’aereo per visitare una città lontana migliaia di chilometri, abbiamo accesso
all’informazione, studiamo, abbiamo quattro settimane di ferie l’anno, andiamo in palestra, viviamo più di ottant’anni,
mangiamo carne e verdura tutti i giorni… insomma, oggi abbiamo il superfluo e
ci riteniamo meno felici dei nostri antepassati.
Beh, allora,
qualcosa non va.
Non vorrei
fare il discorso dell’essere e dell’avere, vorrei solo concentrarmi su alcuni
concetti, quali il vuoto, la paura e il futuro . Guardiamoci quindi intorno e
vediamo cosa realmente manca affinché le nostre condizioni, che sono del tutto
privilegiate, non siano fonte di infelicità.
1.
IL VUOTO (necessità dello spazio vuoto da
riempire con la propria vita)
Viviamo quasi
tutti in città, e queste sono selvaggiamente cementificate, costruite senza
criterio e vissute più come strade e parcheggi che come agglomerato di nidi. Fino
a mezzo secolo fa ci si riuniva per strada, i bambini giocavano allegri e il
tempo libero a disposizione poteva essere dedicato alla socializzazione. Questo
perché c’era spazio (tanto) da riempire con le nostre vite e c’era tempo (poco)
per incontrarsi. Si lavorava più ore, ci si spostava con maggiore fatica, ma c’era
pur sempre un vuoto, sebbene minimo, da riempire. Con la rivoluzione
industriale e il progresso tecnologico questo vuoto temporale è aumentato, ed è
diventato una fonte di guadagno incredibile per chi ha capito che il vuoto,
l’uomo tende a riempirlo. Ed ecco la TV, la palestra, la rete sociale, il
videogioco… riempire il vuoto rinchiudendosi sempre di più, non più in piazza,
non più all’aperto… che pacchia per il cementificatore di turno che ha colmato
il vuoto del quartiere con un bel palazzone, con un comprensorio, con un centro
commerciale… e basta scorribande in bicicletta, partite di pallone sottocasa,
rubabandiera e nascondino tra i cumuli di terra e gli alberi. Il vuoto del
tempo va riempito con attività che isolano e rinchiudono, in questo modo il
vuoto fisico diventa una preda per il costruttore, che propone lusso, comodità,
protezione e sicurezza. E anche il giardino o il cortile non hanno più la
funzione di riunire il vicinato, ma semplicemente di decorare per accogliere i
visitatori. Il cortile è un lusso di facciata e i bambini non ci possono
giocare perché darebbero fastidio ai vicini.
2.
LA PAURA (fomentare la paura per ridurre lo
spazio vitale)
Viviamo in
appartamenti, circondati da pareti, protetti da porte blindate e inferriate
alle finestre. L’agglomerato urbano, sempre più disumano, è un panorama di
palazzoni e strade dove anche i pochi alberi rimasti vengono tagliati perché temiamo
che ci cadano in testa. Abbiamo paura che i nostri averi, conquiste faticose di
anni e anni di sofferenze delle generazioni passate e del nostro lavoro, vadano
in mano a ladri e delinquenti di ogni sorta. Abbiamo paura di mandare i nostri
bambini a giocare per strada o di mandarli a scuola da soli perché le macchine
sono dappertutto, perché le moto circolano e parcheggiano sui marciapiedi,
perché ci si sporca e ci si può far male (ma questo succedeva anche prima, solo
che non ci faceva paura). Il nostro vivere è diventato conservazione di
qualcosa, inscatolamento delle energie, e tutto questo perché il boom economico
ha portato la società del consumo a progredire con una velocità che supera la
nostra capacità di adattamento. In fondo, invece di aver imparato a convivere
in spazi cittadini disumani, proprio perché spaventosamente disumani, abbiamo
imparato a rinchiuderci sempre di più nelle nostre casseforti claustrofobiche
che chiamiamo case.
3.
IL FUTURO (il vero vuoto da riempire)
Grande
incognita, grande vuoto che si ciba solo del nostro continuo andare avanti.
Eppure invece di affascinarci lo
temiamo, invece di entusiasmarci al pensiero che tutto è ancora da fare e da
dire, ci lasciamo dominare dalla paura. Quindi la rincorsa al risparmio e
all’accumulo di averi, che ci rende difficile liberarci da fardelli inutili per
presentarci liberi all’appuntamento con il futuro, relegato a luogo dove solo
quanto oggi accumulato donerà la sicurezza necessaria a continuare a vivere. Ma
la sicurezza non fa rima con futuro che, per sua natura, è uno sconosciuto e
non è sicuro. Tutto ciò che è sconosciuto è fonte di nuove paure e, tra le
nostre mura domestiche, ci difendiamo dal futuro. Ma attenzione, il futuro è
vuoto, e la paura del vuoto è cresciuta quando gli urbanisti selvaggi, complici
i mass media che hanno reso lo spazio vuoto inutile portandoci a rinchiuderci, hanno
riempito il vuoto cittadino con palazzoni indecenti. Forse quando il vuoto era
parte della nostra vita quotidiana si sognava di più e il futuro, invece di far
paura, affascinava…
Non andrò
oltre, molti altri elementi possono essere analizzati, per ora soffermiamoci su
Vuoto, Paura e Futuro, che forse sono già abbastanza per capire dove risiede la
nostra mancanza di felicità.
Ora
rivediamo gli stessi punti con un’altra impostazione:
1.
IL VUOTO
È forse
necessario che ogni quartiere abbia spazi vuoti che possano essere centro di
aggregazione. In molti quartieri delle nostre città neanche esiste, questo
vuoto, e se esiste è preda di urbanisti. Se ogni quartiere avesse un parco da
dedicare alla propria storia, uno spazio che non sia appannaggio dei cani che
fanno la cacca o dei drogati, ma che sia punto di incontro degli abitanti
dell’area, con panchine, giochi per i bambini, alberi per l’ombra e per la
bellezza del verde, campo di bocce, e aiuole con fiori d’ogni sorta, magari
dati in gestione ai cittadini, che se ne curi la gente del posto che in cambio
avrebbe l’allegria di fare qualcosa insieme… un orto didattico, un mini teatro
all’aperto da utilizzare per spettacoli
estivi, o per attività culturali organizzate dal quartiere, come letture di
poesie, mini spettacoli di bambini e grandi… il quartiere potrebbe riunirsi in
uno spazio vuoto e metterci la propria vita.
2.
LA PAURA
Vivere il
vuoto rende migliori. Se il quartiere organizza e partecipa alle attività messe
nel vuoto, risulterà più unito e più solidale, potendo abbattere molte barriere
della comunicazione e, con questo, riducendo il livello di paura, perché nel
momento in cui l’area nella quale viviamo è più nostra, il senso stesso di
appartenenza ci potrà tirar fuori dalle case, ci porterà a convivere con
maggior serenità, ad utilizzare senza timore l’immaginazione, semplicemente
perché nell’aia si è liberi. E chi ha paura dell’aia?
3.
IL FUTURO
Il vuoto è
già di per sé luogo di sperimentazione, ma non deve essere semplicemente vuoto,
deve esserci la capacità organizzativa della comunità. Quindi l’aia, il vuoto
che riempiremo, deve permetterci di esprimerci, non solo giocando a bocce o a
pallone, ma anche coinvolgendo le scuole e gli operatori di cultura
dopolavoristi che popolano il quartiere, si potranno programmare attività e,
con il coinvolgimento attivo della cittadinanza, laboratori creativi che
possano dar spazio ai nostri sogni. Le potenzialità dei cittadini sono immense
e se non si esprimono oggi, renderanno pesante il domani. Il futuro è anche
libertà, e lo spazio vuoto serve per coltivare queste libertà che ci permettono
di affrontare il futuro con sorrisi che oggi non abbiamo.
Insomma, se
riempiamo il vuoto con i nostri sogni, smetteremo di rimpaingere i tempi
andati.
Claudio
Fiorentini
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