sabato 28 maggio 2016

Riflessioni sui tempi andati, sul vuoto, sulla paura e sul futuro.




I tempi andati non erano migliori, e forse non erano neanche peggiori, semplicemente erano diversi. Se pensiamo ai grandi progressi degli ultimi cento anni, avremo di che essere contenti di vivere oggi: l’alfabetizzazione, la scolarizzazione, le 40 ore di lavoro, il servizio sanitario, le cure odontoiatriche… cento anni fa, per non andare lontano, c’erano? La maggioranza della popolazione era analfabeta, si lavorava 78 ore a settimana, spesso anche i  bambini lavoravano… e se non c’erano furti in casa (o ce n’erano di meno rispetto ad oggi) era solo perché le case erano così povere che non c’era niente da rubare. Basta visitare una zona mineraria, una risaia, un villaggio di montagna,  per avere la chiara percezione di quanto fossero difficili le condizioni di vita dei nostri antepassati, che non avevano la bicicletta, il trattore o la motozappa, sia perché ancora non erano stati inventati, sia perché non se li potevano permettere.   
Mi direte che questo lo sanno tutti, eppure troppo spesso sento dire che prima era meglio, perché oggi non si vive più: violenza, traffico, affanno, crisi economica, crisi di valori… prima ci si parlava, prima ci si aiutava, prima… e forse questo è anche vero… ma perché se le condizioni di vita delle masse erano durissime, molto più dure, ingiuste e insalubri delle nostre oggi, abbiamo l’idea che i loro tempi erano migliori? Forse per l’immagine romantica del focolare con intorno il nonno che racconta belle storie mentre i bambini festosi ascoltano? Si, senza dubbio, questo succedeva, quando il nonno era vivo, ma il più delle volte era morto da anni, e avere il nonno vicino era un privilegio di pochi. O forse perché i bambini giocavano allegri nell’aia e le mamme non avevano di che preoccuparsi? Vero anche questo, ma le mamme lavoravano dall’alba al tramonto, i bambini raramente andavano a scuola e spesso lavoravano anche loro… i pochi che riuscivano ad andare a scuola, quando tornavano a casa non è detto che trovassero un piatto caldo e il riscaldamento acceso…
I ricordi che si raccontano sono spesso i migliori, la memoria trattiene con piacere gli aspetti romantici dei ricordi, difficilmente si ricorda (e si racconta) il mal di denti, i calli alle mani, il vasetto da notte puzzolente sotto il letto, il bagno al diurno due volte al mese, i pidocchi… e troppo spesso si tende a leggere la storia di chi aveva privilegi, già, perché la storia non la scrivono i poveracci, e le durissime condizioni di vita di milioni di persone silenziose non fanno parte dei nostri miti.
Ebbene, se le condizioni di vita sono migliorate, allora perché capita così spesso di sentire voci di rimpianto per i tempi andati? Forse c’era del meglio, e questo chi lo nega: più solidarietà, legami famigliari solidi, amicizie indistruttibili, forza di volontà, coraggio… io stesso quando penso a quello che hanno fatto i miei nonni, i miei genitori, mi chiedo se avrei la forza di fare lo stesso… ma forse non  è giusto chiederselo, perché le loro qualità erano necessarie a colmare il vuoto dei loro tempi, erano la risposta alle loro necessità. Ma veniamo al punto: siamo passati dal medico di paese che andava in giro col carretto alla struttura ospedaliera ben attrezzata, dall’aratro trainato da bestie al trattore ipertecnologico, dal rubabandiera al videogioco, dal caminetto al riscaldamento autonomo, dalla chiacchierata in piazza al social network…  la felicità o la serenità non sono condizioni legate alle comodità, l’uomo ha coscienza solo dell’innovazione che gli passa tra le mani, ed è felice con il progresso che vive. La misura della felicità non dipende dal livello d’innovazione, ma va contestualizzata. Su quali criteri si basa chi asserisce che i tempi andati erano migliori, e che in passato si era più felici? Prendiamo una persona che mette i panni in lavatrice e poi accende l’artefatto, trovandosi davanti un po’ di tempo per fare altro (un vuoto da riempire), ebbene, quella persona non dirà mai che era meglio quando le donne di paese andavano a lavare i panni al fiume e si spaccavano le mani e la schiena strofinando e strizzando. Niente da fare, le necessità sono diverse e dipendono dal contesto, le qualità che colmano il vuoto oggi non sono le stesse di tanti anni fa, occorre capacitarsene, occorre far crescere queste qualità senza rimpiangere quelle cresciute in altri tempi e contesti.
Bene, oggi abbiamo tutto, lavoriamo 5 giorni a settimana, 8 ore al giorno , abbiamo ospedali, ci possiamo permettere di andare al ristorante o allo stadio, prendiamo l’aereo per visitare una città lontana migliaia di chilometri, abbiamo accesso all’informazione, studiamo, abbiamo quattro settimane di ferie l’anno,  andiamo in palestra, viviamo più di ottant’anni, mangiamo carne e verdura tutti i giorni… insomma, oggi abbiamo il superfluo e ci riteniamo meno felici dei nostri antepassati.
Beh, allora, qualcosa non va.
Non vorrei fare il discorso dell’essere e dell’avere, vorrei solo concentrarmi su alcuni concetti, quali il vuoto, la paura e il futuro . Guardiamoci quindi intorno e vediamo cosa realmente manca affinché le nostre condizioni, che sono del tutto privilegiate, non siano fonte di infelicità.

1.       IL VUOTO (necessità dello spazio vuoto da riempire con la propria vita)

Viviamo quasi tutti in città, e queste sono selvaggiamente cementificate, costruite senza criterio e vissute più come strade e parcheggi che come agglomerato di nidi. Fino a mezzo secolo fa ci si riuniva per strada, i bambini giocavano allegri e il tempo libero a disposizione poteva essere dedicato alla socializzazione. Questo perché c’era spazio (tanto) da riempire con le nostre vite e c’era tempo (poco) per incontrarsi. Si lavorava più ore, ci si spostava con maggiore fatica, ma c’era pur sempre un vuoto, sebbene minimo, da riempire. Con la rivoluzione industriale e il progresso tecnologico questo vuoto temporale è aumentato, ed è diventato una fonte di guadagno incredibile per chi ha capito che il vuoto, l’uomo tende a riempirlo. Ed ecco la TV, la palestra, la rete sociale, il videogioco… riempire il vuoto rinchiudendosi sempre di più, non più in piazza, non più all’aperto… che pacchia per il cementificatore di turno che ha colmato il vuoto del quartiere con un bel palazzone, con un comprensorio, con un centro commerciale… e basta scorribande in bicicletta, partite di pallone sottocasa, rubabandiera e nascondino tra i cumuli di terra e gli alberi. Il vuoto del tempo va riempito con attività che isolano e rinchiudono, in questo modo il vuoto fisico diventa una preda per il costruttore, che propone lusso, comodità, protezione e sicurezza. E anche il giardino o il cortile non hanno più la funzione di riunire il vicinato, ma semplicemente di decorare per accogliere i visitatori. Il cortile è un lusso di facciata e i bambini non ci possono giocare perché darebbero fastidio ai vicini.

2.       LA PAURA (fomentare la paura per ridurre lo spazio vitale)

Viviamo in appartamenti, circondati da pareti, protetti da porte blindate e inferriate alle finestre. L’agglomerato urbano, sempre più disumano, è un panorama di palazzoni e strade dove anche i pochi alberi rimasti vengono tagliati perché temiamo che ci cadano in testa. Abbiamo paura che i nostri averi, conquiste faticose di anni e anni di sofferenze delle generazioni passate e del nostro lavoro, vadano in mano a ladri e delinquenti di ogni sorta. Abbiamo paura di mandare i nostri bambini a giocare per strada o di mandarli a scuola da soli perché le macchine sono dappertutto, perché le moto circolano e parcheggiano sui marciapiedi, perché ci si sporca e ci si può far male (ma questo succedeva anche prima, solo che non ci faceva paura). Il nostro vivere è diventato conservazione di qualcosa, inscatolamento delle energie, e tutto questo perché il boom economico ha portato la società del consumo a progredire con una velocità che supera la nostra capacità di adattamento. In fondo, invece di aver imparato a convivere in spazi cittadini disumani, proprio perché spaventosamente disumani, abbiamo imparato a rinchiuderci sempre di più nelle nostre casseforti claustrofobiche che chiamiamo case.

3.       IL FUTURO (il vero vuoto da riempire)

Grande incognita, grande vuoto che si ciba solo del nostro continuo andare avanti. Eppure invece di affascinarci  lo temiamo, invece di entusiasmarci al pensiero che tutto è ancora da fare e da dire, ci lasciamo dominare dalla paura. Quindi la rincorsa al risparmio e all’accumulo di averi, che ci rende difficile liberarci da fardelli inutili per presentarci liberi all’appuntamento con il futuro, relegato a luogo dove solo quanto oggi accumulato donerà la sicurezza necessaria a continuare a vivere. Ma la sicurezza non fa rima con futuro che, per sua natura, è uno sconosciuto e non è sicuro. Tutto ciò che è sconosciuto è fonte di nuove paure e, tra le nostre mura domestiche, ci difendiamo dal futuro. Ma attenzione, il futuro è vuoto, e la paura del vuoto è cresciuta quando gli urbanisti selvaggi, complici i mass media che hanno reso lo spazio vuoto inutile portandoci a rinchiuderci, hanno riempito il vuoto cittadino con palazzoni indecenti. Forse quando il vuoto era parte della nostra vita quotidiana si sognava di più e il futuro, invece di far paura, affascinava…


Non andrò oltre, molti altri elementi possono essere analizzati, per ora soffermiamoci su Vuoto, Paura e Futuro, che forse sono già abbastanza per capire dove risiede la nostra mancanza di felicità.

Ora rivediamo gli stessi punti con un’altra impostazione:

1.       IL VUOTO

È forse necessario che ogni quartiere abbia spazi vuoti che possano essere centro di aggregazione. In molti quartieri delle nostre città neanche esiste, questo vuoto, e se esiste è preda di urbanisti. Se ogni quartiere avesse un parco da dedicare alla propria storia, uno spazio che non sia appannaggio dei cani che fanno la cacca o dei drogati, ma che sia punto di incontro degli abitanti dell’area, con panchine, giochi per i bambini, alberi per l’ombra e per la bellezza del verde, campo di bocce, e aiuole con fiori d’ogni sorta, magari dati in gestione ai cittadini, che se ne curi la gente del posto che in cambio avrebbe l’allegria di fare qualcosa insieme… un orto didattico, un mini teatro all’aperto da utilizzare per  spettacoli estivi, o per attività culturali organizzate dal quartiere, come letture di poesie, mini spettacoli di bambini e grandi… il quartiere potrebbe riunirsi in uno spazio vuoto e metterci la propria vita.

2.       LA PAURA

Vivere il vuoto rende migliori. Se il quartiere organizza e partecipa alle attività messe nel vuoto, risulterà più unito e più solidale, potendo abbattere molte barriere della comunicazione e, con questo, riducendo il livello di paura, perché nel momento in cui l’area nella quale viviamo è più nostra, il senso stesso di appartenenza ci potrà tirar fuori dalle case, ci porterà a convivere con maggior serenità, ad utilizzare senza timore l’immaginazione, semplicemente perché nell’aia si è liberi. E chi ha paura dell’aia?

3.       IL FUTURO

Il vuoto è già di per sé luogo di sperimentazione, ma non deve essere semplicemente vuoto, deve esserci la capacità organizzativa della comunità. Quindi l’aia, il vuoto che riempiremo, deve permetterci di esprimerci, non solo giocando a bocce o a pallone, ma anche coinvolgendo le scuole e gli operatori di cultura dopolavoristi che popolano il quartiere, si potranno programmare attività e, con il coinvolgimento attivo della cittadinanza, laboratori creativi che possano dar spazio ai nostri sogni. Le potenzialità dei cittadini sono immense e se non si esprimono oggi, renderanno pesante il domani. Il futuro è anche libertà, e lo spazio vuoto serve per coltivare queste libertà che ci permettono di affrontare il futuro con sorrisi che oggi non abbiamo.

Insomma, se riempiamo il vuoto con i nostri sogni, smetteremo di rimpaingere i tempi andati.


Claudio Fiorentini

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