domenica 22 maggio 2016

Le parole sono sacre

Le parole sono sacre. Meritano rispetto. Se scegli quelle giuste nel giusto ordine, puoi spostare un pochino il mondo.

(Tom Stoppard)

Le parole possono essere forti, deboli, inutili, incomprensibili, clandestine, provocatorie, ignoranti, ciniche, fuggenti, brillanti, utopiche, vane, pesanti, ridicole, inventate, insane, bullistiche, impressionanti, false, vere… ma alla fine sono solo parole. Il punto è, cosa ci facciamo con le parole? Cosa tentiamo di inserire in questi suoni e ritmi? Tentiamo di comunicare, di esibirci, di conquistare, di persuadere, di ingannare, di sedurre, di imporci… o semplicemente di conversare, di giocare, di dare un senso… a ciò che senza parole un senso non ha? E poi, da ogni discorso ci sono sempre delle parole che sono state escluse perché considerate non necessarie… eppure continuano ad essere strumento per noi che con esse ci collochiamo nella realtà. Se le parole escluse dai discorsi fossero utilizzate per fare altro? Vediamo però cosa facciamo con le parole, a volte anche cose importanti. Cito Franz Josef Strauss: i dieci comandamenti contengono 279 parole, la Dichiarazione Americana d’Indipendenza 300 e le disposizioni della comunità Europea sull’importazione di caramelle esattamente 25.911. Parole… e pensare che il fine della parola dovrebbe essere quello di comunicare.
Ma come è nata la parola? Diceva Gabriel Garcia Marquez: Le parole non vengono create dagli accademici nelle accademie bensì dalla gente per strada. Gli autori dei dizionari le catturano quasi sempre troppo tardi e le imbalsamano in ordine alfabetico, in molti casi quando non significano più ciò che intendevano gli autori.
A me piace immaginare questa scena. Due uomini delle caverne che comunicano a gesti e suoni si allontanano dalla caverna, sono per un attimo soli, lontani dal branco, animali liberi che decidono di andare al fiume e aspettare che i pesci si lascino catturare. Sono lì che osservano il fiume, non emettono nessun suono, conoscono il silenzio, è un loro alleato per le uscite di caccia o di pesca… d’un tratto un pesce salta sulla superficie dell’acqua, uno dei due emette un suono specifico, articolato, forse Glublulu, e si rende conto che ha fatto qualcosa di nuovo, ha risposto a uno stimolo dell’ambiente con un suono preciso che riproduce in lui la stessa sensazione che ha avuto quando ha visto il pesce saltare. Guarda il suo compagno e gli dice glublulu, il compagno lo guarda e sorride senza sapere perché, il primo indica l’acqua e dice glublulu. Aspettano ancora, un altro pesce salta e il primo ripete, sorridendo,  glublulu, glublulu… allora il secondo dice glublulu perché ha capito. Glublulu significa pesce che salta sul fiume. I due non ce la fanno più, iniziano una danza sfrenata ripetendo glublulu, sanno che per dire “andiamo a cercar pesci possono evitare di grugnire e gesticolare, basta dire glublulu: hanno scoperto la parola. Allora tornano al branco senza bottino di pesca, ma guardano gli altri ridendo e dicendo glublulu, glublulu. Il branco non capisce, ma a gesti i primi due li convincono ad andare al fiume, allora tutti seduti in silenzio aspettano finché salta un pesce, i due dicono felici glublulu, ridono, saltano, giocano, ballano… e piano piano il branco capisce… e tutti a dire glublulu. È nata la parola. È nato un codice di comunicazione che con un suono riassume un evento, un simbolo fonetico, necessariamente onomatopeico, necessariamente bio-logico, già, perché la parola ripete la sensazione dell’evento senza che l’evento debba riproporsi. La parola è come uno yoga della mente e degli organi vocali, è esercizio fisico, respiro, azione inattiva… la parola è comunicazione di qualcosa attraverso un’altra cosa, la sensazione, appunto, quella che si riproduce attraverso un suono emesso in un certo modo, non in un altro modo… per questo la parola deve essere detta come si deve, usata come si deve, pronunciata come si deve… un mantra, insomma.
Del resto, anche Keynes diceva: Le parole debbono essere un po’ selvagge perché sono l’assalto del pensiero sull’impensato.
Bene, oggi che ci siamo allontanati da quella purezza cavernicola, cosa facciamo delle parole? Dice Pirandello: Come possiamo intenderci se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e il valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Ecco cosa abbiamo perso con i millenni: il senso univoco della parola, il significato universale, accomunante, identitario. E tutto questo perché? Perché l’educazione linguistica ci allontana sempre di più da quello che è stato in principio il senso, aggiungendo sensi personali, legati all’esperienza personale. E allora, come venirne fuori? Come ridare alla parola il suo senso primitivo e primario? Qualcuno ci ha provato con la filosofia, ma non è bastato, la confusione ha preso il sopravvento… altri ci hanno provato con qualcosa che non si spiega, e che chiamiamo arte. E non era arte quello che i nostri due amici trogloditi hanno espresso nel loro scoprire la parola glublulu? Non era poesia quella prima spontanea parola? O era scienza? O forse in quel primo momento scienza, filosofia, arte e discipline esoteriche si sono fuse per dar forma a quel suono?
Diceva Meister Eckhart: Le parole non sono identiche alle cose. Conoscere delle parole relative a dei fatti non equivale in nessun modo alla comprensione diretta ed immediata dei fatti stessi.
Ora però fermiamoci qui, non cadiamo nella trappola della filosofia. Riassumiamo solo dicendo che l’arte nasce per comunicare quello che i codici di comunicazione non riescono a comunicare. L’arte è un modo inedito di comunicare. Che si usi il colore, la forma, il suono, il ritmo, in sostanza si usa lo spazio-tempo. E l’arte, usando lo spazio-tempo che gli è contemporaneo, deve vivere ai margini perché nasce da un disegno interiore e profondo, non ha senso, non ha guida razionale, non ha spiegazione. Come i nostri due amici trogloditi che hanno scoperto la parola in un momento di totale abbandono, lontano dal gruppo, così il poeta vive, perché c’è probabilmente un momento in cui il poeta (l’artista in generale) rivive quella scoperta troglodita, riscopre quel glublulu, capisce che ha in sé la potenzialità dello stupore, e lo cerca, cerca in sé la formula che traduce l’abisso, la grandezza, la vita senza forma, e gli dà forma. La poesia, per sua natura, è esclusa da tutto ciò che razionalizza. Almeno da lì nasce. Come si sviluppa poi è affar suo. 
E concludo citando Giovanna Mulas: Ciò che ti domando è un'assoluta perdita di controllo dominata da una perfetta capacità di controllo. Nudi davanti al Lettore: le parole devono farsi nuove, frastornare, stupire senza ipocondrie morali. Fino a quando non sarete pronti a questo, non fatevi chiamare ‘scrittori’. 

Claudio Fiorentini

1 commento:

  1. Uffà... Allora non sarò mai uno scrittore? Se mi metto nudo davanti al pubblico, quei già pochi che vengono alle presentazioni, chiamano le forze dell'ordine!

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