Le parole sono sacre. Meritano rispetto.
Se scegli quelle giuste nel giusto ordine, puoi spostare un pochino il mondo.
(Tom Stoppard)
Le parole possono essere forti, deboli,
inutili, incomprensibili, clandestine, provocatorie, ignoranti, ciniche,
fuggenti, brillanti, utopiche, vane, pesanti, ridicole, inventate, insane,
bullistiche, impressionanti, false, vere… ma alla fine sono solo parole. Il
punto è, cosa ci facciamo con le parole? Cosa tentiamo di inserire in questi
suoni e ritmi? Tentiamo di comunicare, di esibirci, di conquistare, di
persuadere, di ingannare, di sedurre, di imporci… o semplicemente di
conversare, di giocare, di dare un senso… a ciò che senza parole un senso non
ha? E poi, da ogni discorso ci sono sempre delle parole che sono state escluse
perché considerate non necessarie… eppure continuano ad essere strumento per
noi che con esse ci collochiamo nella realtà. Se le parole escluse dai discorsi
fossero utilizzate per fare altro? Vediamo però cosa facciamo con le parole, a
volte anche cose importanti. Cito Franz Josef Strauss: i dieci comandamenti
contengono 279 parole, la Dichiarazione Americana d’Indipendenza 300 e le disposizioni
della comunità Europea sull’importazione di caramelle esattamente 25.911.
Parole… e pensare che il fine della parola dovrebbe essere quello di
comunicare.
Ma come è nata la parola? Diceva Gabriel
Garcia Marquez: Le parole non vengono create dagli accademici nelle accademie
bensì dalla gente per strada. Gli autori dei dizionari le catturano quasi
sempre troppo tardi e le imbalsamano in ordine alfabetico, in molti casi quando
non significano più ciò che intendevano gli autori.
A me piace immaginare questa scena. Due
uomini delle caverne che comunicano a gesti e suoni si allontanano dalla
caverna, sono per un attimo soli, lontani dal branco, animali liberi che
decidono di andare al fiume e aspettare che i pesci si lascino catturare. Sono
lì che osservano il fiume, non emettono nessun suono, conoscono il silenzio, è
un loro alleato per le uscite di caccia o di pesca… d’un tratto un pesce salta
sulla superficie dell’acqua, uno dei due emette un suono specifico, articolato,
forse Glublulu, e si rende conto che ha fatto qualcosa di nuovo, ha risposto a
uno stimolo dell’ambiente con un suono preciso che riproduce in lui la stessa
sensazione che ha avuto quando ha visto il pesce saltare. Guarda il suo
compagno e gli dice glublulu, il compagno lo guarda e sorride senza sapere
perché, il primo indica l’acqua e dice glublulu. Aspettano ancora, un altro
pesce salta e il primo ripete, sorridendo, glublulu, glublulu… allora il
secondo dice glublulu perché ha capito. Glublulu significa pesce che salta sul fiume.
I due non ce la fanno più, iniziano una danza sfrenata ripetendo glublulu,
sanno che per dire “andiamo a cercar pesci possono evitare di grugnire e
gesticolare, basta dire glublulu: hanno scoperto la parola. Allora tornano al
branco senza bottino di pesca, ma guardano gli altri ridendo e dicendo
glublulu, glublulu. Il branco non capisce, ma a gesti i primi due li convincono
ad andare al fiume, allora tutti seduti in silenzio aspettano finché salta un
pesce, i due dicono felici glublulu, ridono, saltano, giocano, ballano… e piano
piano il branco capisce… e tutti a dire glublulu. È nata la parola. È nato un
codice di comunicazione che con un suono riassume un evento, un simbolo
fonetico, necessariamente onomatopeico, necessariamente bio-logico, già, perché
la parola ripete la sensazione dell’evento senza che l’evento debba riproporsi.
La parola è come uno yoga della mente e degli organi vocali, è esercizio
fisico, respiro, azione inattiva… la parola è comunicazione di qualcosa
attraverso un’altra cosa, la sensazione, appunto, quella che si riproduce
attraverso un suono emesso in un certo modo, non in un altro modo… per questo
la parola deve essere detta come si deve, usata come si deve, pronunciata come
si deve… un mantra, insomma.
Del resto, anche Keynes diceva: Le parole
debbono essere un po’ selvagge perché sono l’assalto del pensiero
sull’impensato.
Bene, oggi che ci siamo allontanati da
quella purezza cavernicola, cosa facciamo delle parole? Dice Pirandello: Come possiamo intenderci se nelle parole ch’io dico metto il senso e il
valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta,
inevitabilmente le assume col senso e il valore che hanno per sé, del mondo
com’egli l’ha dentro? Ecco cosa abbiamo perso con i millenni: il
senso univoco della parola, il significato universale, accomunante,
identitario. E tutto questo perché? Perché l’educazione linguistica ci
allontana sempre di più da quello che è stato in principio il senso,
aggiungendo sensi personali, legati all’esperienza personale. E allora, come venirne fuori? Come ridare alla parola il suo senso
primitivo e primario? Qualcuno ci ha provato con la filosofia, ma non è
bastato, la confusione ha preso il sopravvento… altri ci hanno provato con
qualcosa che non si spiega, e che chiamiamo arte. E non era arte quello che i
nostri due amici trogloditi hanno espresso nel loro scoprire la parola
glublulu? Non era poesia quella prima spontanea parola? O era scienza? O forse
in quel primo momento scienza, filosofia, arte e discipline esoteriche si sono
fuse per dar forma a quel suono?
Diceva Meister Eckhart: Le parole non sono
identiche alle cose. Conoscere delle parole relative a dei fatti non equivale
in nessun modo alla comprensione diretta ed immediata dei fatti stessi.
Ora però fermiamoci qui, non cadiamo nella
trappola della filosofia. Riassumiamo solo dicendo che l’arte nasce per
comunicare quello che i codici di comunicazione non riescono a comunicare. L’arte è
un modo inedito di comunicare. Che si usi il colore, la forma, il suono, il
ritmo, in sostanza si usa lo spazio-tempo. E l’arte, usando lo spazio-tempo che
gli è contemporaneo, deve vivere ai margini perché nasce da un disegno
interiore e profondo, non ha senso, non ha guida razionale, non ha spiegazione.
Come i nostri due amici trogloditi che hanno scoperto la parola in un momento
di totale abbandono, lontano dal gruppo, così il poeta vive, perché c’è
probabilmente un momento in cui il poeta (l’artista in generale) rivive quella
scoperta troglodita, riscopre quel glublulu, capisce che ha in sé la
potenzialità dello stupore, e lo cerca, cerca in sé la formula che traduce
l’abisso, la grandezza, la vita senza forma, e gli dà forma. La poesia, per sua
natura, è esclusa da tutto ciò che razionalizza. Almeno da lì nasce. Come si
sviluppa poi è affar suo.
E concludo citando Giovanna Mulas: Ciò che
ti domando è un'assoluta perdita di controllo dominata da una perfetta capacità
di controllo. Nudi davanti al Lettore: le parole devono farsi nuove,
frastornare, stupire senza ipocondrie morali. Fino a quando non sarete pronti a
questo, non fatevi chiamare ‘scrittori’.
Claudio Fiorentini
Uffà... Allora non sarò mai uno scrittore? Se mi metto nudo davanti al pubblico, quei già pochi che vengono alle presentazioni, chiamano le forze dell'ordine!
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